Angelo Brofferio

Biografia

Angelo Brofferio nacque il 6 dicembre 1802 a Castelnuovo Calcea (AT). Ricevette un’educazione antitradizionale e anticlericale. Si formò culturalmente e politicamente con la lettura dei libri dell’illuminismo francese e scoprì molto presto una passione per il teatro, seguendo l’esempio di Alfieri. Brofferio mantenne un ricordo sempre vivo del suo paese natale che citò spesso nei suoi libri con affetto e nostalgia.

A dieci anni andò in collegio ad Asti per seguire gli studi ginnasiali e liceali. Nel 1817, lui e la sua famiglia, si trasferirono a Torino, dove frequentò l’Università di giurisprudenza.

Nel 1821 il giovane conte Santorre di Santarosa, incoraggiato dal principe Carlo Alberto, progettò un’insurrezione per ottenere, anche nel Regno di Sardegna, la Costituzione. Anche lo studente Brofferio vi prese parte, andando a manifestare davanti al Teatro d’Angennes. Gli studenti si unirono ai rivoltosi e affrontarono i reparti reali, mentre la popolazione torinese rimase estranea, se non ostile. Gli insorti puntarono allora verso Asti e Alessandria, dove ebbero migliore accoglienza. Brofferio prese parte attiva alla sommossa, facendo anche le prime prove oratorie. La rivolta fu, poi, soffocata con una dura repressione.

Brofferio si rifugiò, così, a Castelnuovo. Fu allora che cominciò a scrivere drammi. Tornato a Torino, tentò di far rappresentare la sua prima tragedia sul tema della libertà, ma non ebbe l’autorizzazione a causa della censura. Anzi, quel debutto mancato fece riaprire le indagini sul giovane autore, che fu allontanato dall’Università. Ritornò a Castelnuovo dove trascorse l’inverno e solo nel 1822, dopo la riammissione all’Università, riuscì a concludere gli studi in giurisprudenza. Cominciò ad avere successo a teatro e le sue tragedie furono messe in scena dalla Compagnia Reale in molte città italiane e non. La censura intervenne in più occasioni riguardo ai messaggi politici, contenuti nelle tragedie. Per questa ragione il giovane drammaturgo iniziò a scrivere canzoni e ballate in dialetto, meno soggette al controllo della censura. Il dialetto era allora la lingua viva e, quindi, lo strumento più efficace per comunicare a una grande massa di persone gli ideali della libertà risorgimentale.


Nel 1831, Brofferio si lasciò coinvolgere in una cospirazione (nota come I Cavalieri della libertà), guidata dall’ufficiale Andrea Bersani. Ma le rivelazioni di una spia fecero arrestare tutti i cospiratori. Dopo questa esperienza difficile e controversa, Brofferio abbandonò la cospirazione perché troppo pericolosa e sterile, impegnandosi a coinvolgere tutto il popolo, accettando la monarchia sabauda come cardine del nuovo Stato unitario. Pensò, allora, al giornalismo per sostenere e comunicare le sue idee progressiste. Nel 1835 fece un accordo con l’editore de Il Messaggere Torinese (un giornale di commercio) e ne divenne il direttore, cambiandone la formula. Il giornale si occupò di letteratura, teatro, critica di costume e fatti d’attualità, rendendo molto popolare la figura politica dell’avvocato. Brofferio fondò anche altri giornali come Il Diritto e La Voce della Libertà.


Durante la sua vita, Brofferio, venne arrestato due volte: la prima volta nel 1831 per cause politiche, la seconda nel 1845 per motivi privati. All’inizio degli anni ’40, Brofferio instaurò una relazione extra-coniugale con la giovane attrice Giuseppina Zauner. Allora Brofferio aveva già tre figli con la moglie Felicie Perret, che tentò di ostacolare la relazione. Nel 1845 la Zauner fu espulsa dal regno. Ma nell’estate di quell’anno la donna aveva dato alla luce un bambino. Brofferio mise in atto un tentativo per favorire il ritorno della compagna a Torino ma ciò non fu possibile. Nel dicembre del 1845 Brofferio si recò a Milano insieme alla levatrice: i due avrebbero assunto l’identità dei coniugi Bianchi e la Zauner quella della figlia, ma il tentativo di riportare l’amata nel regno sabaudo, fu vano. La polizia torinese li pedinò e il 21 dicembre 1845 Brofferio fu incarcerato. Verso la metà di gennaio sia Brofferio che la Zauner furono espulsi dal Piemonte, ma l’avvocato ebbe il permesso di ritornare a Torino.


In parlamento si batté per la libertà di stampa e contro la censura, i metodi di polizia e il rispetto delle libertà personali, l’istruzione laica obbligatoria e gratuita, il diritto di associazione contro l’ostruzionismo del governo ai circoli democratici. Condusse anche la battaglia per l’abolizione della pena di morte e della tortura, per la quale presentò un progetto di legge, che, a sorpresa, fu approvato, ma il governo non diede corso al provvedimento. Fu un grande oppositore dell’ottusa politica retrograda della nobiltà e del clero. Durante i periodi di guerra, quando si discuteva su come bisognasse gestire i nuovi territori conquistati, sostenne la necessità di costituire uno stato federale, per meglio tutelare la storia e la cultura di ogni singola provincia. Attribuì le dovute riconoscenze alla casa dei Savoia che contribuì all’unificazione italiana. Brofferio interpretò con convinzione in Parlamento le posizioni anticlericali e si oppose al potere temporale della Chiesa che impediva l’unificazione italiana.

L’avvocato Brofferio assunse la difesa di molti imputati in reati politici. Dopo circa vent’anni di carriera divenne uno dei criminalisti più qualificati in Italia per eloquenza e preparazione giuridica e venne chiamato anche fuori dal Regno di Sardegna. Accettò processi particolarmente ostici e difficili come quello del generale Ramorino, che da un lato accrebbero la sua fama, ma dall’altro resero più agguerriti i suoi nemici che lo soprannominarono: avvocato del diavolo. Ne è comprova un articolo che apparve sul giornale Il Risorgimento, l’8 settembre 1849, dal titolo: “Brofferio assistito dal diavolo”, in cui Cavour riconosce che il deputato parla “ordinato, splendido, senza affermazioni rettoriche, erudito senza essere pesante, facondo senza verbosità, agilissimo nel coprire il sofisma, caustico senza cadere nel goffo, stringente nell’argomentazione e imperturbabile quanto il sostenitore della causa più vera e più chiara.” Il grande oratore seduceva e stordiva anche gli avversari, la sua voce scorreva come un torrente e si disse che “Dio gli ha dato l’ingegno e il diavolo lo dirige”.

Brofferio scrisse anche libri di storia, come “Storia delle rivoluzioni italiane dal 1821 al 1848”, “Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri” e “Storia del parlamento subalpino, iniziatore dell’unità italiana”, su incarico del re Vittorio Emanuele II. Angelo Brofferio morì in Svizzera nella villa “La Verbanella” il 25 maggio 1866, a seguito di una forte crisi di nervi. Nella vita fu soprattutto un comunicatore, capace di emozionare il pubblico. Tutta la sua vita fu costruita attorno al fascino della parola: il teatro, le canzoni, il giornalismo, l’avvocatura e l’attività politica.

Il pensiero politico

Angelo Brofferio non espresse in forma sistematica i suoi ideali politici, che vanno colti ed individuati soprattutto nei suoi discorsi parlamentari e in parte nelle sue canzoni o sul “Messaggere Torinese” o in altre opere. In particolare è stato coinvolto nei moti di San Salvario in Torino (1821), mentre più elaborata ideologicamente, anche se ingenuamente preparata e condotta fu la congiura dei “Cavalieri della libertà” (1831), che mirava ad estendere al Piemonte i fermenti già emersi altrove in Italia, nonché all’ottenimento della costituzione e alla lotta contro l’Austria, tramite una confederazione di stati italiani. La confederazione rimase per molto tempo nei suoi sogni, sì che scrisse in un discorso da lui citato nella Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri: “Debbono gli italiani stendersi la mano per formare un popolo confederato il quale sia…in distinti stati un solo stato e libero negli interni ordinamenti delle sue province”. E più avanti nello stesso volume : “L’Italia non può unificarsi fuorché con una lega italiana di cui sia Roma, se vuolsi, la metropoli, senza distruggere nessuna delle altri capitali italiane”.


Vediamo come egli si espresse nella piena maturità sui temi fondamentali della democrazia e delle conquiste civili, che lo videro costantemente schierato alla sinistra del Parlamento subalpino, pur senza un legame organico con i pochi suoi altri colleghi dello stesso orientamento. In un discorso del 1848, appena insediato il Parlamento Subalpino, Brofferio proclamò: "Noi siamo democratici e lo siamo altamente: ma si vorrebbe, per esporci al pubblico odio, che fossimo socialisti, anarchici e comunisti. Si protesti una volta per sempre contro queste nefande calunnie, che noi rimandiamo a coloro che se ne fanno artefici e propagatori. Democrazia, o signori, suona per noi eguaglianza politica, sociale fraternità e non anarchia, e non guerra alla proprietà e non guerra alle famiglie…Noi respingiamo altamente tutte le arrischiate teorie di socialismo, di comunismo, che suonano perfidamente sul labbro dei nemici nostri”.

In altro discorso viene ampliato in questi termini il concetto di democrazia:

“Democrazia vuol dire governo del popolo e se nel governo costituzionale, col popolo vi ha da essere il re, vuolsi che questi due elementi, popolo e re siano talmente congiunti, che formino un solo elemento”. E’ adombrata qui la sua adesione al principio della sovranità popolare, ereditata dalle rivoluzioni americana e francese e insito nelle idee repubblicane del Mazzini.

Dunque Brofferio rifiutò, come G. Mazzini, le idee socialiste, anarchiche e comuniste, che in parte non dispiacquero invece a G. Garibaldi e a differenza da Mazzini, pur propendendo idealmente per la forma repubblicana dello stato, aveva scritto su “Il Messaggere Torinese” che egli cita nella Storia del Piemonte : “Mi piace la repubblica…ma in Piemonte, dove un re ha snudato la spada per la libertà italiana e sta valorosamente combattendo per disperdere ogni traccia di oppressione straniera, pensare alla repubblica sarebbe barbaro atto, a cui solo applaudirebbero i barbari che ci stanno a fronte”.


Accettò quindi la monarchia costituzionale, che in Piemonte cominciava, pur con alti e bassi, a dar buona prova con re Carlo Alberto, a cui egli riconobbe d’essersi posto alla testa del movimento nazionale per la guerra all’Austria.

Del re disse alla sua morte: “Le rispettate ceneri giovarono alla libertà piemontese”. E nella Storia del Piemonte pure su Mazzini scrisse: “Sebbene Mazzini aspirasse in cuor suo alla repubblica, si recava a sacro dovere di non turbare la concordia fraterna coll’iniziativa di politiche controversie”.

Analoga e anzi maggiore considerazione manifestò per Vittorio Emanuele II, di cui disse: “In cospetto a tanti re spergiuri, Vittorio Emanuele seppe rispettare i giuramenti”. Però sostenne nel 1849 l’istituzione di una “Costituente italiana” con il rischio che dal responso ne uscisse la scelta repubblicana: “Se il regno dell’Alta Italia ostasse all’unione italiana…sarebbe opera di cattivo cittadino rovinare l’Italia per una parte di essa; noi dobbiamo essere dov’è la nazione, non dove sono i municipali interessi.”.

Per “Municipali interessi” egli intendeva il progetto, sempre da lui detestato, di perseguire l’unificazione italiana attraverso un semplice ingrandimento del Piemonte, con le sue istituzioni ed il suo apparato statale, ciò che poi avvenne.


Nel “Preambolo al II volume della Storia del Parlamento Subalpino richiamava un suo discorso del 1859, ad unificazione ormai avviata: “I Torinesi dovrebbero pensare un poco più seriamente alla separazione che si sta creando intorno a loro: dovrebbero a quest’ora essere convinti che il Piemonte non può ingoiare l’Italia e che per non essere ingoiato egli stesso, ha debito d’associarsi al movimento italiano, onde aver vita comune cogli altri fratelli…Badi il conte di Cavour, badino quelli che sotto la sua ferrea verga governano il Piemonte…che ostinandosi a sfidare l’Italia col mandare al governo delle nuove province inetti burocratici (sic) di Torino…essi faranno o l’una o l’altra immancabilmente di queste due cose: o rovineranno compiutamente l’Italia ed il Piemonte con essa, o l’Italia si farà loro malgrado e sarà rovinato il Piemonte”.

Dopo la Convenzione con la Francia per il trasferimento della capitale a Firenze mercé la rinuncia a Roma (1864), Brofferio scrisse che il Piemonte doveva “mettersi alla testa del rinnovamento italiano…sentinella avanzata della libertà nazionale, chi altri può essere fuorché la nuova generazione italiana…Il Piemonte, adunque, non a torto accusato di essere stato un vecchio aristocratico, doveva ringiovanirsi sotto gli auspizii dei nuovi tempi e della nuova democrazia.

Democrazia! Ma quale?...Per non essere sospettato, dico subito che intendo parlare di democrazia costituzionale…Per conquistare Venezia e Roma, la fine ha da essere Vittorio Emanuele alla testa di un grosso esercito, Giuseppe Garibaldi alla testa della nazione armata, il risveglio generale dei popoli oppressi al suono delle trombe, allo squillo delle campane. Rischioso cimento diranno i moderati. E qual mai libertà di popolo…grandezza di paese che siasi ottenuta senza estremi rischi e fieri cimenti e prodigiose opere?”.

Aggiungeva nel citato Preambolo al vol. II della Storia del Parlamento Subalpino : “ Si va chiedendo nelle altre città d’Italia qual sia la politica dei torinesi…si va affermando che i torinesi non siano da altro animati che da rancore municipale. La sventura di Torino oggi sta in questo, che le associazioni popolari in cui ferve lo spirito di progresso non hanno e non possono esercitare influenza nelle politiche deliberazioni del paese, mentre la società permanente [formata da esponenti delle classi superiori] che avrebbe autorità per governare i pubblici affari si disarma da se stessa con le pallide riserve e le consuetudini retrospettive”. E concludeva auspicando l’alleanza del popolo con gli ottimati.

La concezione politica del Brofferio, molto idealistica e romantica, era per lo più di difficile realizzazione, a differenza dal calcolato pragmatismo del Cavour, per cui l’azione politica doveva tener conto delle possibilità e della convenienza di raggiungere determinati traguardi.

Uno scontro clamoroso tra l’idealismo brofferiano e la lungimiranza machiavellica del Cavour si ebbe in occasione dell’intervento piemontese nella guerra di Crimea (1853-1856) in appoggio alla politica della Francia e dell’Inghilterra, (verso cui nutriva scarsa fiducia). La partecipazione alla guerra di Crimea, mentre si rivelò un capolavoro di sottile opportunismo da parte di Cavour, che con un modesto apporto di uomini e mezzi si conquistò l’appoggio francese nella guerra contro l’Austria per la liberazione delle regioni nord-orientali dell’Italia, per Brofferio essa distoglieva senza alcuna utilità apparente per il Piemonte dalla causa primaria e dall’obiettivo di lottare con le sole forze italiane per l’unificazione. Più concrete furono le sue battaglie per la rivendicazione e la difesa dei diritti civili in nome di ideali ereditati dalla Rivoluzione francese ed in forza della sua cultura giuridica.

Altre cause da lui propugnate, sebbene s’ispirassero a principi in linea teorica condivisibili, erano troppo drastiche. In nome del suo anticlericalismo intransigente e, in contrasto con la formula di Cavour : “Libera chiesa in libero stato”, sostenne l’abolizione del potere temporale dei Papi, potere che aveva radici lontane e che non poteva essere toccato senza sollevare grossi problemi di politica internazionale.

E’ tuttavia suggestiva ed eloquente la motivazione che egli addusse a sostegno di quest’ultima tesi in un discorso parlamentare : “…i successori di S. Pietro debbono possedere l’eredità di S. Pietro, che è quella della povertà, dell’umiltà e del sacrificio; ed è tempo che le chiavi del Vaticano aprano la via del cielo e non dischiudano in terra la strada profana delle ambizioni e della divisione…Quando il Pontefice si spoglierà dello scettro e della corona che non avrebbe mai dovuto portare…la sua parola sarà più rispettata, il suo esempio più venerato, il verbo di Cristo suonerà più immacolato nel cuore dei credenti…Chi è che afferma che senza il dominio temporale del papa non vi è religiosa indipendenza? L’indipendenza della religione sta nella santità della sua causa, non nelle vanità della terra.

E altrove: “ La chiesa non può essere indipendente se è mantenuta dallo stato…Essa può accettare l’obolo del fedele: non può, non deve vivere a stipendio del potente…,del paese”. E ancora : “Pretendo forse io che i preti non posseggano? Posseggano pure, come possiedono tutti gli altri cittadini…ma non perché preti, sebbene quantunque preti”. La ricca personalità di A. Brofferio, sfrondata di certi eccessi, interpretò le più genuine ed avveniristiche aspirazioni dell’anima popolare più evoluta del suo tempo, che oltre al raggiungimento dell’unità nazionale, rivendicava il sacrosanto riconoscimento dei diritti individuali e mirava alle fondamentali conquiste democratiche e sociali.

Nel Parlamento Subalpino prima, e poi in quello italiano, fu tra i protagonisti di tutte le rivendicazioni della sinistra democratica, per quei tempi, estremista: certe battaglie che oggi appaiono ovvie, furono da lui combattute di fronte ad un potere ostile ed in mezzo ad un popolo ignaro, che in gran parte non le comprendeva né appoggiava.

Non si unì mai ad alcun gruppo. Disse all’uopo F. Petruccelli della Gattina : “Tranne nel voto e nello scopo, la sinistra resta in frazioni” e della sua isolata posizione politica scrisse N. Rodolico : “ Il Brofferio in fondo era un isolato in seno alla Camera e non aveva veste per parlare in nome della sinistra” e spiega in un passo precedente : “(Nel campo della sinistra)” la compattezza andava via via frantumandosi e i deputati più illuminati come il Depretis, il Mellana, il Valerio si sentivano trascinati dalla politica realizzatrice del Cavour, mentre restavano fuori del gioco coloro che, come il Brofferio, erano rimasti ancorati ad uno sterile massimalismo di origine vagamente mazziniana, con punte astrattamente giacobineggianti”.

Perciò il Brofferio venne tacciato di demagogia, ma fu – al di sopra di ogni veduta troppo personale - un fervente avvocato delle classi più umili ed un appassionato sostenitore della causa risorgimentale, come attesta ancora F. Petruccelli della Gattina : “ Il signor Brofferio ama la libertà con passione, ama l’Italia…Egli ha sempre difeso queste nobili cause quando furono in pericolo o minacciate”.

Lasciò la sua eredità politica a Felice Cavallotti, da cui prese l’avvio il riformismo ed il primo nucleo del partito radicale, accanto all’ormai diffusa ideologia socialista.


Natale Ferro

La produzione letteraria

LA POESIA

Angelo Brofferio diventò chansonnier dopo aver deciso di intraprendere la carriera di avvocato. La sua prima pubblicazione risale al 1825 quando fece stampare a Milano una piccola raccolta di poesie in italiano (alla quale venne allegata anche questa foto), l’anno dopo, presso l’editore Pomba di Torino, un racconto in versi (Le lagrime dell’amore).

Durante un suo viaggio in Francia, ebbe l’opportunità di conoscere un poeta di grande fama, il quale scriveva poesie e canzoni con stile popolare: Jean Pierre de Béranger. Per Brofferio Béranger, fu un maestro che lo convinse ad abbandonare i modelli classicheggianti per riflettere sull’uso del piemontese come lingua più accessibile al popolo e di larga efficacia nella diffusione delle idee di libertà e unità nazionale anche fra i ceti meno abbienti. Brofferio, a differenza di Béranger, scriveva versi in modo diretto utilizzando anche battute gergali pur di ottenere l’effetto sarcastico o di rendere intrigante il racconto amoroso. Scelta la strada della composizione poetica, Brofferio affinò l’espressione linguistica. L’autore utilizzò sempre il dialetto torinese, anche se nella poesia “La steila del piemont” affermò di scrivere in monferrino (D’cantè d’arie in stil monfrin), ma questo solamente per questioni di metrica. Il piemontese era allora la lingua viva, parlata da tutti (anche se i nobili preferivano il francese) e in particolar modo dal popolo. Era quindi vantaggioso scrivere in piemontese per riuscire a comunicare gli ideali patriottici anche al popolo che, secondo Brofferio, doveva essere coinvolto e poi divenire fautore dell’unità stessa. Per lui la poesia doveva esprimere la forza della vita e l’immediatezza dei sentimenti. S’ispirò agli scrittori romantici, credendo alla funzione civile del poeta che per primo doveva avere idee patriottiche. La battaglia romantica di Brofferio fu orientata sulla politica. Per lui il romanticismo s’immedesimava nelle idee di libertà e di patria, di opposizione all’oppressione straniera. Brofferio invitava il popolo ad agire e ad abbandonare l’indifferenza verso gli ideali patriottici.


Le sue poesie ebbero grande diffusione. I personaggi di cui si parlava erano facilmente riconoscibili e il popolo imparava a memoria i versi, inserendoli nel linguaggio comune, divenendo dei veri e propri proverbi come: Torna, torna ant tò canton, guarda ‘l mond e fa d’ canson e Përchè crudel dëstin nen feme un ravanin? I componimenti circolavano con facilità negli ambienti della borghesia e divertivano il pubblico che, essendo sottomesso alla nobiltà, riusciva moralmente a prendersi una rivincita con battute sarcastiche contro i nobili. Il dialetto era un veicolo diretto e spontaneo per comunicare pensieri e opinioni, che non incombeva nel controllo della censura.


Gli argomenti delle sue poesie traevano spunto dalle tradizioni, leggende e emozioni comuni. Comprendevano anche elementi magici e mitici, ancora vivi nella cultura popolare, come, nella poesia sul diavolo “La Ca Granda” e in quella sul paradiso “La glòria del paradis”, scritte in un linguaggio chiaramente magico e anche irriverente; la conclusione era: meglio stare laggiù fra le fiamme che in paradiso assieme ai bigotti!

Nelle sue poesie gli attacchi più pungenti erano rivolti ai religiosi e ai loro vizi, come nella poesia “Litanie për ij mè mai”. L’anticlericalismo e l’ostilità verso la Chiesa romana, che costituiva uno stato indipendente, ostacolando così l’unificazione italiana, divennero anche i temi principali delle sue discussioni parlamentari. Un altro tema ricorrente nelle sue poesie, è il disprezzo verso la nobiltà retrograda. Scrisse anche poesie autobiografiche, dove si descriveva difensore di principi politici e ideali, accentuando l’autoironia. Nel Mè at d’fede, tracciò un ritratto divertito di sé, nato in pieno inverno, come uno zucchino sulla punta di una collina. Si paragonò anche a un diavolo bizzarro, sperando, in un giudizio positivo di Dio, che invitò a non essere “pidocchio”. Il suo pensiero riguardante la vita si fondava sulla filosofia popolare che “l’univers l’è na baraca e noi soma ij buratin” (Ij buratin).


Oltre il carattere scherzoso, Brofferio aveva anche una vena nostalgica e malinconica, soprattutto in riferimento ai luoghi dell’infanzia. Ciò si riscontra nella poesia Ël bòsch d’Vignòle e in numerose descrizioni del suo paese natale. Le composizioni più tristi furono quelle dell’esperienza del carcere, presentandosi come un ingenuo patriota sventurato, deluso dalla cospirazione. Nelle sue creazioni ebbero un ruolo importante anche le donne. Brofferio aveva fama di grande amatore e allora Carolina, Rosalia, Caterina, Cecilia, Carlotta e Teresina (come anche altre attrici e ballerine) diventarono le protagoniste degli amori del poeta. Erano donne reali, capaci di ardenti passioni, ragazze del popolo, che possedevano una forte sensualità. Molto del successo delle poesie, dipendeva dalle espressioni dirette, proprie degli usi popolari del tempo.

IL GIORNALISMO

Dopo il fallimento dell’attività cospirativa nei moti degli anni ’30 e ’31, Brofferio, che esercitava l’attività di avvocato, pensò che il giornalismo fosse un ottimo mezzo per sostenere e comunicare le idee progressiste presso l’opinione pubblica. In Italia già negli anni ’20 si erano affermati in Toscana e in Lombardia giornali di carattere letterario, culturale, liberale (di ispirazione romantica) a cui si contrapponevano periodici di concezione reazionaria. Brofferio fu il primo in Piemonte ad aprire la strada del giornalismo politico. L’avvocato fece un accordo con l’editore de “Il Messaggiere”, noto giornale di commercio di Torino, cambiandone la formula. Il giornale si occupò di letteratura, teatro, critica di costume e fu un mezzo assai efficace per rendere più popolare il suo direttore: Angelo Brofferio. Il giornale era un settimanale. Brofferio in seguito, fondò anche altri giornali come la Galleria contemporanea, Il Diritto, La Voce della Libertà, La Voce nel Deserto, tutte pubblicazioni di violenta polemica contro i moderati e i cattolici. Il giornalismo permise a Brofferio di esprimere al meglio la sua personalità curiosa e versatile e un efficace strumento per intervenire nella vita pubblica. Dimostrò piglio creativo e capacità imprenditoriali in quanto inventore di formule giornalistiche e direttore di giornali.


GLI SCRITTI STORICI E A FAVORE DELL’UNITÀ D'ITALIA

Brofferio tracciò la storia dell’arte tipografica in Piemonte per conto dell’editore Pomba, per sostenere la lotta degli editori contro i privilegi della Stamperia Reale, ma il manoscritto non venne ritenuto appropriato, tanto che venne sequestrato dalla censura e fu stampato solamente nel 1876. Era una ricostruzione dell’evoluzione della stampa in Piemonte, dall’invenzione di Gutenberg. Carlo Alberto si interessò personalmente all’attività di Brofferio, assegnandogli il compito di scrivere un opera a sostegno dello spirito italico. L’avvocato optò per una tragedia e scrisse Vitige re dei Goti, che risentiva dell’influenza di scrittori romantici. Fu letta dal re che commissionò alla Compagnia Reale di inscenarla, ma poi cambiando idea ne proibì il debutto. Brofferio pubblicò tra il 1844 e il 1846 le Scene elleniche, sull’esempio di Chateaubriand, con precisi riferimenti storici.

Questo poema, richiamando l’esempio della lotta dei greci contro i turchi, fu un contributo per la diffusione delle idee reazionarie. Venne stampato presso l’editore Fontana, lo stesso che pubblicava i libri di Manzoni. Il tipografo Fontana volle fare un’altra pubblicazione illustrata di carattere storico e gli propose una collezione di storie e leggende, con lo scopo di prefigurare la nazione, anticipando culturalmente l’unità politica ed istituzionale. L’opera in quatto volumi si intitola “Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia d’Italia e mandate alla luce a cura dei rinomati scrittori italiani” e fu diretta da Brofferio. I volumi uscirono tra il 1847 e il 1850.

In seguito all’entusiasmo portato dalla dichiarazione di guerra da parte del Regno sabaudo a quello austroungarico, scrisse l’opera in due volumi “Storia delle rivoluzioni italiane dal ‘21 al ‘48”. Nel 1849 fece stampare presso il tipografo Fontana il primo dei cinque volumi della “Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri”, che concluderà nel 1852. Descrive criticamente la figura di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice, mentre delinea un aspetto più positivo nei confronti di Carlo Alberto, che gli ha commissionato l’opera. Nel manoscritto Brofferio descrive con attenzione la situazione sociale del Piemonte. Dedica gran parte del testo alla cronologia delle diverse fasi delle battaglie. Esprime esplicitamente giudizi storico-politici personali inserendo emozioni, desideri e il suo sdegno. Il suo saggio sulla storia del Piemonte può venire considerato testo autobiografico. Infatti, nello scrivere testi storici Brofferio, non si preoccupa di far emergere un giudizio storico, bensì di rimanere protagonista della narrazione dei fatti, con le sue opinioni politiche e personali.

Su ordine di Vittorio Emanuele II scrive la “Storia del Parlamento Subalpino” che verrà pubblicata tra il 1865 e il 1869. Fu anche incaricato, ancora una volta dal re, di scrivere (nel periodo della 3° guerra d’indipendenza) l’“Inno di guerra”.

Dalle spade il fiero lampo

troni e popoli svegliò.

Italiani al campo, al campo

è la madre che chiamò.

Su corriamo in battaglioni

fra il rimbombo dei cannoni,

l’elmo in testa, in man l’acciar

viva il Re dall’Alpi al mar.

L’AUTOBIOGRAFIA: I MIEI TEMPI

L’opera “I Miei Tempi”, è una summa di tutti i libri scritti precedentemente, e contiene molte citazioni, dalle tragedie, alle canzoni. L’autobiografia è composta da venti libri, scritti durante l’età della maturità e stampati tra il 1857 e il 1861. Brofferio, nel corso del racconto, inserisce considerazioni sui letterati più amati, leggende di frati, di briganti e di amanti, vicende di re e di politici potenti. Non segue una linea cronologica, ma accosta delle associazioni di memoria, dalle esperienze private agli episodi di vita politica. Il ricordo della famiglia d’origine è affettuoso e commosso: il nonno educatore, la docilissima madre dalla voce melodiosa, il padre autorevole e generoso. Nell’opera un ampio spazio è riconosciuto alle donne, ma Brofferio non fa mai riferimento alle mogli e ai figli delle due unioni.